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12 Ottobre 2023
Nabladue
Tempo di lettura: 9 minuti

La fenomenologia dello schermo

Evoluzione storica del concetto di esistenza

L'essere umano, nella sua incessante ricerca di significato, ha sempre anelato alla comprensione della natura stessa dell'esistenza. Questa ricerca ha attraversato i secoli, evolvendosi e mutando a seconda dei contesti storici e culturali.

Nel Medioevo, la visione del mondo era permeata da una profonda spiritualità. La frase "Esiste solo Dio" non era solo una dichiarazione di fede, ma rappresentava una realtà concreta , l'unico essere realmente esistente. Dio era il centro dell'universo, l'origine e la fine di tutto. In tale contesto, l'esistenza umana era vista in relazione a Dio e al suo disegno divino.

Durante il Rinascimento, la filosofia ha iniziato a spostare il suo focus dall'esterno all'interno dell'uomo. Cartesio, con la sua celebre affermazione "Penso dunque sono", ha posto l'individuo e la sua capacità di ragionare al centro dell'esistenza. Non era più Dio a definire l'esistenza, ma la capacità dell'individuo di pensare e riflettere.

Con l'avanzare della scienza e del riduzionismo, l'esistenza ha iniziato ad essere definita in termini empirici. "Esiste solo quello che vedo o che posso cogliere con i sensi" è diventato il nuovo mantra. La realtà era ciò che poteva essere osservato, misurato e quantificato. Questo approccio ha portato a incredibili progressi scientifici, ma ha anche ridotto l'esistenza a ciò che è tangibile e osservabile. Siamo diventatati un insieme di particelle che si muovono secondo determinate leggi fisiche.

Nell'era moderna, con l'avvento della tecnologia e dei media, la percezione della realtà ha subito un'ulteriore evoluzione. "Appare su uno schermo dunque è" sintetizza perfettamente questa nuova visione. In un mondo dominato dagli schermi, ciò che viene mostrato diventa la realtà.

schermo essere apparire

Se qualcosa non appare su uno schermo, è come se non esistesse. Questa centralità dello schermo nella percezione della realtà ha profonde implicazioni, sia filosofiche che psicologiche. La realtà non è più ciò che è tangibile o osservabile, ma ciò che viene proiettato e condiviso.

 

Con il passar del tempo gli schermi si sono moltiplicati: televisione, monitor del computer, tablet, smartphone.  Ogni schermo aggiuntivo non ha rubato tempo agli altri. I "tempi" passati davanti ad uno schermo si sono semplicemente sommati.

Smartphone-computer-televisione-smartphone-televisione-computer-tablet. In questo modo passano le nostre giornate.  A volte riusciamo ad usare anche due o tre schermi in contemporanea.

Gran parte delle nostre vite, si svolge davanti ad uno schermo. Contrariamente a quanto si pensava, l'aggiunta di ogni nuovo schermo non ha ridotto il tempo trascorso sugli schermi già esistenti.  Gli schermi non competono tra loro; collaborano per catturare ogni momento della nostra attenzione.

Gli schermi hanno fagocitato il nostro tempo, hanno creato una nuova dimensione temporale. Se per Heidegger essere e tempo sono intrinsecamente legati, lo schermo è, oggi , la condizione di possibilità dell'essere.

La realtà non è più qualcosa che esiste indipendentemente dagli schermi, è qualcosa che viene filtrata, modellata e proiettata. La realtà dello schermo sembra sempre più attraente e coinvolgente della realtà fisica. Gli schermi sostituiscono il mondo fisico. Lo sguardo e l'udito rimangono gli unici sensi attraverso cui entrare in rapporto con il nuovo universo sensibile.

 

Il potere della narrazione visiva e televisiva

 

In un'epoca dominata dalla tecnologia, lo schermo è diventato la finestra attraverso cui vediamo il mondo. Che si tratti di uno smartphone, di un computer o di una televisione, la centralità dello schermo nella percezione della realtà è innegabile.

Ma cosa succede quando questa finestra inizia a determinare non solo ciò che vediamo, ma anche ciò in cui crediamo?

Molti di noi ricorderanno la storia di Alfredino. All'inizio degli anni '80, a Vernicino, un bambino di nome Alfredo Rampi detto Alfredino cadde in un pozzo, dando vita a una delle prime dirette televisive che avrebbe tenuto l'Italia con il fiato sospeso. La sua immagine, quella di un bambino intrappolato e impotente, divenne un simbolo di vulnerabilità e di speranza. Nonostante ci fossero eventi globali di grande rilevanza, l'attenzione mediatica si concentrò su questa specifica tragedia.

Come ha osservato Nassim Nicholas Taleb nel suo libro Il cigno nero:

“Le informazioni statistiche astratte non ci attirano quanto gli aneddoti, indipendentemente dal nostro grado di sofisticazione. [...] Nel frattempo in Libano infuriava la guerra civile. [...] eppure il destino del bambino italiano [Alfredino] era fra gli interessi principali della popolazione del quartiere cristiano di Beirut. «Guarda com’è carino» mi dicevano, e tutta la città sperava che fosse tratto in salvo. Pare che Stalin, che di morte ne sapeva qualcosa, abbia detto: «Una morte è una tragedia, milioni di morti sono una statistica».”

Anche Emilio Fede, in linea con Taleb, commentò la vicenda in questo modo:

«In quel momento poteva succedere qualunque cosa [...] un colpo di Stato, ammesso che ce ne fosse l'atmosfera, l'aria o le intenzioni da parte di qualcuno, e la gente avrebbe risposto: «Va bene, fammi sentire però che sta succedendo a Vermicino»»

Questa riflessione ci porta a una verità scomoda, ma essenziale: la potenza argomentativa e persuasiva delle storie rispetto alle statistiche. Mentre le cifre possono informarci, sono le storie individuali che ci toccano emotivamente. E in un mondo dominato dalla narrazione visiva, queste storie hanno il potere di oscurare o persino riscrivere la realtà.

Nel 1981, l'Italia fu testimone di un evento che produsse un cambiamento di paradigma sul modo in cui i media narrano le tragedie. La Rai organizzò una diretta televisiva ininterrotta che durò ben 18 ore, catturando l'attenzione di circa 21 milioni di italiani.

All’epoca c'era un senso di pudore e rispetto, sia per le vittime sia per gli spettatori. Tuttavia, la tragedia di Vermicino cambiò tutto. Questo evento ha dato vita a quello che oggi viene chiamato la "tv del dolore", un approccio alla copertura mediatica che mette in primo piano l'emozione e il dramma.

 

Il Dolore come Strumento di Propaganda

 

La scoperta che il dolore e il dramma potessero catturare l'attenzione del pubblico in modo così avvincente, come dimostrato dalla tragedia di Vermicino, ha aperto una nuova dimensione nella comunicazione mediatica. Non passò molto tempo prima che si comprendesse come queste emozioni potessero essere manipolate e utilizzate come potenti strumenti di propaganda.

 

La rappresentazione del dolore, quando è autentica, può creare empatia e solidarietà. Tuttavia, quando viene distorta o esagerata, può diventare uno strumento per manipolare l'opinione pubblica.

 

Questo è particolarmente vero in situazioni di conflitto o tensione politica, dove la rappresentazione del "noi" come vittime e del "loro", come aggressori malvagi, può giustificare azioni, politiche o interventi che altrimenti sarebbero stati inaccettabili.

La narrazione propagandistica si nutre di immagini e storie che evocano forti emozioni. Immagini di bambini in lacrime, di famiglie distrutte, di comunità in rovina possono essere utilizzate per creare un senso di urgenza, giustificare interventi militari, sostenere regimi autoritari o persino legittimare l’imposizione dall’esterno di un sistema democratico con le armi. Queste immagini, spesso prive di contesto o presentate in modo fuorviante, diventano armi potenti nelle mani di chi vuole manipolare l'opinione pubblica.

La storia di Alfredino ci mostra come un singolo evento, amplificato dalla potenza dello schermo, possa eclissare tragedie di scala molto più ampia. Non perché queste tragedie siano meno importanti, ma perché la narrazione visiva ha il potere di catturare l'attenzione e di plasmare la percezione della realtà.

 

La guerra come evento mediatico e televisivo

 

La guerra, con tutto il suo orrore e la sua complessità, è stata da sempre un evento che ha catturato l'attenzione dell'umanità. Ma nell'era moderna, con l'avvento dei media e della tecnologia, la guerra è diventata anche uno spettacolo, un evento mediatico e televisivo che viene consumato come qualsiasi altro contenuto.

Il fattore "visibilità" gioca un ruolo cruciale in questo contesto. Le guerre che vediamo sono quelle che vengono ritenute "importanti" o "rilevanti" dai media. Ma ciò che vediamo è solo la punta dell'iceberg. Per ogni conflitto che domina le prime pagine dei giornali o i titoli dei telegiornali, ci sono decine di altri conflitti che vengono ignorati o trascurati. Questo “filtro mediatico” crea una distorsione nella nostra percezione: le guerre che non vediamo sembrano quasi non esistere, mentre quelle che vediamo assumono una rilevanza sproporzionata. (Quante sono le guerre in corso nel mondo adesso?)

La narrazione emotiva e superficiale dei conflitti amplifica ulteriormente questa distorsione. I media, nella loro ricerca di facili click e di accettazione nel panorama culturale dominante, tendono a semplificare e a portare in scena gli eventi in maniera drammatica.

 

Le immagini di bambini in lacrime, di edifici distrutti e di persone in fuga diventano i simboli di un conflitto; mentre le cause profonde, le dinamiche politiche e le complessità storiche vengono spesso trascurate. Questa narrazione emotiva, pur essendo potente, rischia di ridurre la guerra a un semplice spettacolo, privo di contesto e di profondità.

 

Il giornalismo, nella sua forma ideale, è il quarto potere: una forza indipendente e obiettiva che tiene in scacco gli altri poteri e informa il pubblico in modo imparziale. Tuttavia, in un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, dove l'informazione è una merce e l'attenzione del pubblico è una risorsa limitata, il giornalismo può essere tentato di deviare dal suo percorso ideale.

Non è raro, purtroppo, che alcuni giornalisti siano pagati per costruire una narrazione faziosa. Questo può avvenire in vari modi: attraverso finanziamenti occulti, pressioni da parte di potenti lobby o interessi politici, o per la promessa di accesso a incarichi e ruoli di prestigio, ma anche, più semplicemente, per sbarcare il lunario. In questi casi, la "notizia" diventa un prodotto su misura, modellato non per informare, ma per influenzare.

 

Le guerre che non vediamo non esistono

In un'epoca dominata dalla narrazione mediatica, ciò che non viene proiettato sugli schermi sembra svanire nell'oblio collettivo. Le guerre che non fanno notizia, che non sono accompagnate da immagini drammatiche o da dichiarazioni infuocate, diventano spesso guerre "invisibili". Ma l'invisibilità mediatica non diminuisce la sofferenza di chi vive quelle guerre, né l'importanza di quei conflitti nella geopolitica mondiale. Se i nostri sguardi non si volgono verso quelle guerre, esse divengono senza sostanza, senza esistenza. Infatti, paradossalmente, in un mondo in cui l’essere è informazione, ciò che non vediamo o non ci viene mostrato non esiste.

Prendiamo, ad esempio, l'invasione russa dell'Ucraina. Questo conflitto ha dominato le prime pagine dei giornali e i titoli dei telegiornali per mesi. Eppure, è solo uno dei tanti conflitti in corso. La realtà sconvolgente è che attualmente ci sono tra i 50 e 60 conflitti in corso. Non c'è una gueera, ma decine di guerre che stanno devastando intere comunità. Ma la maggior parte di queste guerre rimane invisibile, nascosta dietro l'ombra di conflitti più spendibili a livello mediatico. (Tutti i conflitti del mondo in una infografica)

Le guerre iniziano ad esistere solo quando qualcuno decide che bisogna farle apparire su uno uno schermo. L'essere della guerra è la sua apparizione su uno schermo.

 

La propaganda di guerra e la rappresentazione del nemico come non-essere

La guerra non è solo un conflitto armato; è anche, e forse soprattutto, una battaglia di narrativa e percezione. La propaganda di guerra ha sempre giocato un ruolo cruciale nel modellare le opinioni pubbliche, creando eroi e demoni, vittime e carnefici.

Prendiamo in considerazione lo scontro tra due popolazioni fittizie: gli  ariosaline contro i salitepensi

Immaginiamo che la Nato decida di sostenere gli ariosaline contro i salitepensi. In poco tempo, i media iniziano a inondarci di immagini e storie degli ariosaline: donne e bambini in lacrime, città devastate, racconti di atrocità. Gli ariosaline diventano il simbolo della sofferenza e dell'ingiustizia subita, mentre i salitepensi sono ritratti come i soli responsabili di tale sofferenza, sono unicamente dei carnefici crudeli.

Questa rappresentazione unilaterale della sofferenza ha un effetto duplice. Da un lato, il permette di sostanziare il nemico, plasmandolo con la materia della disumanità. Gli ariosaline non sono più individui con storie, speranze e paure, ma diventano una sorta di incarnazione del male, un'entità da combattere a tutti i costi. La loro sofferenza, le loro perdite, le loro ragioni vengono ignorate o deliberatamente nascoste.

Dall'altro lato, questa narrazione parziale crea l'illusione di comprendere tutta la dinamica del fenomeno guerra. L’essere umano difficilmente può convivere con l’incertezza. Pensiamo di "sapere" cosa sta succedendo, di "conoscere" la verità. In realtà, ciò che vediamo è solo una piccola parte della storia.

La mancanza di una narrazione obbiettiva rende invisibili intere dimensioni del conflitto. Le sofferenze non mostrate sembrano non esistere. Ma solo perché non le vediamo, non significa che non siano reali. La propaganda di guerra e la de-umanizzazione del nemico sono strumenti potenti che possono distorcere la realtà e manipolare l'opinione pubblica. È essenziale riconoscere queste distorsioni e cercare di informarsi in modo critico e completo, andando oltre la narrativa dominante.

 

Le storie non raccontate sugli schermi sono le più importanti oggi

 

Viviamo in un'epoca in cui la realtà e la sua rappresentazione sui dispositivi virtuali sono spesso indistinguibili.

 

Gli schermi, che dominano ogni aspetto della nostra vita, hanno il potere di mostrare, ma anche di nascondere. In questo contesto, la necessità di una consapevolezza critica non è mai stata così urgente. Non possiamo più permetterci di essere semplici spettatori passivi, assorbendo acriticamente ciò che ci viene mostrato.

 

Con l’avvento dell’intelligenza artificiale, la creazione di notizie false o faziose può essere automatizzata e scalata a livelli mai visti prima. Gli algoritmi possono generare storie false e plausibili in tempo reale. Tali storie (fake) possono poi essere indirizzate specificamente a determinati segmenti della popolazione per massimizzare l'impatto.

Le tecniche di intelligenza artificiale come i "deepfakes" permettono di creare video e audio manipolati che sembrano reali. Questo può portare alla costruzione di "prove" false, discorsi mai pronunciati o azioni mai compiute da individui, con potenziali ripercussioni devastanti sulla reputazione delle persone e sulla percezione della realtà.

L’effetto dello schermo sulle nostre rappresentazioni mentali diventa ancora più pernicioso se modulato dall’ intelligenza artificiale. Ciò che vediamo può essere appositamente calibrato per influenzare, persuadere e costituire l’esistente. Ricordiamoci che oggi solo ciò che appare esiste.

 

È fondamentale cercare tra le storie non raccontate sugli schermi, quelle voci che vengono soffocate o ignorate dalla narrativa dominante. Questo richiede sforzo, curiosità e un desiderio genuino di comprendere il mondo nella sua complessità. Andare oltre la superficie significa riconoscere che ogni storia ha molteplici sfaccettature, che ogni conflitto ha molteplici prospettive e che ogni individuo ha una sua unicità preziosa che va oltre la su rappresentazione su uno schermo.

Ogni volta che accettiamo acriticamente una narrativa, ogni volta che ignoriamo una voce, ogni volta che ci disinteressiamo di ciò che non vediamo, contribuiamo a creare una visione del mondo che vorrebbe farci credere che solo ciò che viene proiettato esiste veramente.

 

 

 

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